Il male è qui. E fa un po’ schifo (Outcast 2)

outcast-2Ci sono due modi per approcciare una serie come Outcast (nata dai fumetti di Robert Kirkman, da domani la seconda stagione su Fox). La si può guardare con una sorta di distacco critico e considerare manifestazioni diaboliche ed esorcismi come metafore del male. Oppure si può mettere da parte lo snobismo, immergercisi completamente e credere – per un’ora a settimana – che esistano davvero persone possedute dal demonio che vomitano fluidi neri e levitano nell’aria.

Comunque la si prenda, non è poi così difficile immedesimarsi in un personaggio come Kyle Barnes: a chi non è capitato almeno una volta, nel corso della vita, di trovarsi a tu per tu con i propri incubi peggiori?

Kyle era un emarginato. Un uomo che aveva deciso di vivere da recluso in casa per non fare del male agli altri. E però non basta. I demoni che lo tormentano sin da quando è piccolo si rifanno vivi. Non è più un suo problema personale, è di tutti. Il reietto, che con i demoni ha un rapporto speciale, è costretto suo malgrado a trasformarsi in eroe per salvare la sua famiglia, la sua città, forse addirittura il mondo intero. Con lui c’è l’ambiguo revederendo Anderson, un prete di quelli che giocano a poker e si sfondando di alcolici.

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Da horror introspettivo, molto personale e lontano dalle atmosfere di The Walking Dead – per citare un’altra creatura di Kirkman – nella seconda stagione Outcast prosegue la sua transizione verso il genere apocalittico. Il male è dappertutto, non più solo nascosto dentro le case, dietro le tende, all’interno di stanze buie. Fuor di metafora? Si salvi chi può.

P.s. A me è bastata la prima scena, quella del bambino che uccide lo scarafaccio con una testata, per capire che non è il mio genere… Ma magari voi avete uno stomaco più forte del mio.

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